I dialoghi di Cammino Libero

Enrico Camanni – Scrittore, giornalista, alpinista

Ritornano i dialoghi di Cammino Libero con l’intervista a Enrico Camanni, uno dei più noti intellettuali nel mondo della montagna.

Camanni ha pubblicato da poco più di due mesi l’ultimo suo romanzo “Se non dovessi tornare – la vita bruciata di Gary Hemming, alpinista fragile”.
Nell’intervista parliamo della sua ultima opera ma anche di altri argomenti…sempre con un filo conduttore legato alla montagna e all’escursionismo.

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Enrico Camanni è nato a Torino nel 1957.

La sua biografia è molto vasta, tra gli incarichi di rilievo ricordo che è stato redattore capo della Rivista della Montagna e direttore di Alp, ha diretto la rivista internazionale di cultura alpina l’Alpe e collabora con la Stampa.
Ha scritto circa mille articoli, commenti, saggi, introduzioni sulla storia dell’alpinismo, l’ambiente e le tematiche alpine.
E’ un alpinista molto attivo sulle Alpi dove ha aperto una decina di vie nuove e ripetuto circa ottocento itinerari di roccia e ghiaccio.
Ha scritto molti libri, spaziando su diversi generi per lui così attrattivi come lo sono sempre stati i grandi spazi.


Inizierei la nostra chiacchierata parlando ovviamente del tuo ultimo romanzo uscito da un paio di mesi…perchè hai scelto di raccontare gli ultimi tre anni di Gary Hemming? Citando il titolo di un tuo podcast abbinato al romanzo parli della storia di un’ossessione? Perchè?

Il personaggio Gary Hemming può essere considerato ossessivo ma anche creativo, una figura che risponde alla psicologia dell’artista più che a quella dell’alpinista.

Anche se era noto per le sue scalate, lui era di fatto uno che inseguiva come tutti gli artisti qualcosa di irraggiungibile…sia in montagna ma anche nella vita di tutti i giorni quando si è messo a scrivere, a inseguire una vita di ossessioni che era impossibile da sostenere vivendo solo senza punti di riferimento.

Io l’ho seguito per tantissimo tempo, è sempre stato un’icona di questo alpinismo nuovo di rottura degli anni sessanta che da noi è arrivato un decennio dopo.

Quando è stata scritta da Mirella Tenderini la sua biografia nel 1992 rimanevano comunque tre anni di vuoto, proprio gli ultimi, probabilmente perché i suoi ultimi diari erano andati persi.

A me interessava proprio quel periodo perché rappresenta l’ascesa e poi la caduta. Un’ascesa e una fama inaspettata che l’ha destabilizzato (*).

Volevo raccontare quei tre anni inesplorati scrivendo un romanzo che ti permette di andare in profondità, descrivendo non tanto le imprese quanto l’uomo.

Una curiosità… quanto è stato difficile raccogliere testimonianze e informazioni sugli intensi suoi ultimi anni di vita?

A differenza dei tempi in cui è stata scritta la biografia trent’anni fa oggi Internet ti permette di accedere a tante fonti e di rintracciarne di nuove.

Ad esempio ho scoperto una specie di blog che è stato fatto da un regista inglese che voleva fare un film su di lui mettendo in contatto i sopravvissuti che lo avevano conosciuto.

La rete oggi fa la differenza e poi bisogna avere anche un po’ di fiuto giornalistico mettendo insieme i pezzi.

Essendo un romanzo ho poi inserito dialoghi e situazioni sempre però coerenti con la storia di Hemming.

Il passaggio dalla celebrità all’autodistruzione…potremmo riassumere così il senso del tuo romanzo?

Hemming rappresenta esattamente quello che è successo a tante persone celebri e cioè individui fragili che non riescono a gestire la popolarità, mi vengono in mente esempi quali Jim Morrison, Marilyn Monroe, Luigi Tenco.

Sono state forse le persone migliori ma più sensibili, a loro agio nella penombra ma destabilizzati sotto i riflettori.

Leggendo il libro ho trovato molto interessanti i frequenti richiami agli anni sessanta di cui Hemming ne incarnava lo spirito…anche se faticava a sopportarne le contraddizioni. La storia di Hemming è stata per te anche un appiglio (per usare una terminologia che tu conosci bene) per fare alcune incursioni in quei tempi?

Lui è proprio un rappresentante di quegli anni anche se nato nel ’34 quindi in teoria già “vecchio” negli anni sessanta rispetto ai parametri di allora. Hemming era talmente avanti che aveva già tutto dentro probabilmente anche prima.

Degli anni sessanta lui era un po’, senza volerlo, il portavoce di un certo modo di intendere la vita e la politica anche se era sostanzialmente un anarchico.

Rappresentava un atteggiamento antiborghese che è poi diventato l’emblema del maggio parigino a cui in parte ha anche partecipato.

Tutti i richiami che arrivavano dal suo paese, l’America, ovvero Kennedy, Luther King, il Vietnam l’avevano segnato profondamente e lui non li ha nascosti…un fatto quasi eccezionale per un alpinista che di solito parla delle sue scalate ma non dei problemi del mondo che lo circonda.

Lui era un po’ il catalizzatore di certe contraddizioni ma non le celava.

Attraverso un personaggio come Hemming si può raccontare un decennio, un periodo straordinario di cui ancora oggi beneficiamo.

Molte o quasi tutte le conquiste, i diritti, risalgono ad allora. Dagli anni settanta in poi non ho più visto tutto questo fermento.

Gary Hemming è l’espressione di un momento molto fecondo ma anche molto complicato.

Aprendo il nostro dialogo a temi più generali ma sempre legati alla tua profonda esperienza di alpinista e scrittore..ho letto su un tuo articolo di qualche anno fa la frase “penna e piccozza sono due facce della stessa medaglia”. L’alpinismo è quindi davvero metafora di vita?

Secondo me sì ed è il motivo per cui l’alpinista, a differenza di altri sportivi, sente questo bisogno di scrivere.

A volte sono pessimi scrittori però c’è l’esigenza di raccontare, probabilmente perché dentro di loro c’è qualcosa da condividere così grande e importante.

Quindi è vero…penna e piccozza un po’ si bilanciano.

L’alpinista che riesce ad esprimere questi sentimenti è anche più equilibrato, da un senso alla sua passione.

Quel che è certo è che nel tempo l’alpinismo, sin dai tempi pioneristici, ha prodotto una mole impressionante di pubblicazioni e libri.

Uno dei temi più rilevanti se non il più importante degli ultimi tempi è il cambiamento climatico e i suoi effetti in particolare sulla montagna. Cosa ne pensi dal tuo privilegiato punto di osservazione? I ghiacciai, di cui tu tanto hai narrato, che scompaiono…la carenza di riserve d’acqua in montagna anche se in questi ultimi giorni stiamo recuperando…forse un po’ troppo in fretta….cosa ti aspetti per il nostro futuro?

Credo che negli ultimi anni ci sia stata grande consapevolezza sul tema del cambiamento climatico, oggi i giovani seguono con attenzione e si interrogano su questa questione.

A livello globale e politico purtroppo non si è fatto quasi nulla, a livello singolo le azioni sono importanti ma non determinanti.

Bisogna insistere perché chi ci governa prenda delle decisioni.

Abbiamo bisogno di interventi radicali, non si può pensare di risolvere il problema con due pale eoliche in più.

C’è la necessita di produrre in modo diverso, di consumare di meno.

Probabilmente si arriverà a soluzioni efficaci però attraverso dei fenomeni così estremi che costringeranno la politica e l’economia a prendere finalmente provvedimenti drastici.

C’è molta discrepanza tra quello che pensano e in parte riescono a fare i giovani e quello che pensiamo e facciamo noi “over 60”.

Il cambiamento climatico non è una novità, prima o poi dovremo metterci seriamente in discussione sperando di non essere costretti a farlo a causa di eventi inaspettati.


Ho letto con interesse l’iniziativa della montagna sacra nel Parco del Gran Paradiso di cui tu sei uno dei firmatari del progetto. Ci spieghi di cosa si tratta e quali sono le finalità?

E’ un’idea nata in occasione del festeggiamento dei cento anni del Parco e dalla volontà di fare qualcosa di fortemente simbolico.

E’ stata scelta una montagna (Monveso di Forzo, ndr) e si è deciso, senza porre alcun divieto, di non andarci più.

Di fatto questa scelta non cambia le sorti del pianeta ma è un segnale di rispetto assoluto della natura che significa che almeno lì non ci mettiamo più piede.

Non è una montagna sacra nell’accezione orientale con le sue tradizioni culturali e religiose.

Nella nostra tradizione noi non abbiamo mai sacralizzato la montagna, al massimo abbiamo messo delle croci o abbiamo costruito delle cappelle o delle chiese.

La nostra montagna sacra è un luogo che prescinde dal culto religioso, ma che diventa simbolo di qualcosa di elevato e inaccessibile, permeato di un valore trascendentale che l’uomo può fare suo attraverso la contemplazione.

Il messaggio è forte e infatti ci dobbiamo ancora lavorare molto attorno perché alcune volte viene equivocato ma può diventare un punto di partenza da cui possono nascere scelte più lungimiranti.

A titolo di esempio faccio il parallelo con l’esperienza di Carlin Petrini e il suo messaggio quasi rivoluzionario che ha rivalutato il piacere di ciò che mangiamo e le nostre tradizioni locali contrastando il diffondersi della cultura del fast food.


Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Adesso sono impegnato a presentare il nuovo romanzo anche se in autunno uscirà un mio testo per un libro fotografico sul Monviso, o semplicemente Viso per i piemontesi, una montagna simbolica, una specie di Montagna sacra nostrana.

Oggi si sta rivalutando questo ruolo, attraverso un lavoro politico sulle valli del Monviso, il giro escursionistico di Viso e altre iniziative che lo riportano al centro della scena.

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(*)         Alpinista fuori da ogni schema, sensibile e irrequieto, l’americano che scalava le Alpi divenne una leggenda in seguito allo storico salvataggio di due scalatori tedeschi bloccati sul Petit Dru, la parete più dura del Monte Bianco, il 23 agosto 1966

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